Un piano del lavoro reticente sullo scandalo contemporaneo


Maria Grazia Campari


Il Piano al quale mi riferisco è quello del sindacato CGIL; lo scandalo è la flessibilità all’italiana che si è venuta costruendo dalla metà degli anni Ottanta del Novecento senza conoscere soste, solo accelerazioni.
Il quadro nel quale il Piano del Lavoro è destinato a operare mostra le seguenti caratteristiche.
Vige una flessibilità che è stata invocata da più parti come esigenza indifferibile e connaturata al modello di sviluppo economico, produttivo e organizzativo post-fordista.
Un passaggio ritenuto necessario per modernizzare il mercato del lavoro, innalzare i livelli occupazionali, adeguare la mano d’opera alle esigenze della concorrenza internazionale fra imprese, determinare una maggiore “occupabilità” specialmente di giovani e di altri soggetti scarsamente occupati come le donne.
 Il quadro normativo destinato a regolare l’incontro fra domanda e offerta di lavoro è stato ridisegnato attraverso l’introduzione di una serie di tipi contrattuali (più di quaranta) segnati dalla temporaneità e dalla intermittenza, utilizzati, per di più, in assenza di un sistema di welfare adeguato a un reale sostegno dei periodi di inoccupazione.
Contemporaneamente si è assistito al progressivo svilimento del contratto collettivo di lavoro, che riguarda numeri sempre più ristretti di addetti, che viene svuotato di senso e di precettività per l’incalzare delle esigenze del mercato, divenute via via più aggressive a causa della perdurante crisi economico finanziaria. Un contratto assediato dalla precarietà che ne mina l’esistenza stessa.
Il mercato del lavoro, come vedremo, sostanzialmente deregolato, ha determinato nei soggetti situazioni di incertezza esistenziale tale per cui essi soffrono la difficoltà di accedere ai diritti di cittadinanza oltre che ai diritti del lavoro.
Alcune delle giovani che partecipano all’AGORA’ del lavoro di Milano hanno chiarito il nesso: la precarietà è fatta di parcellizzazione di tempi che provoca instabilità affettiva ed etica, individualismo competitivo, dinamiche interpersonali scarsamente civili.
Viene meno il tessuto connettivo fra individui che sentono di appartenere al medesimo contesto, retto da regole in cui ognuno può riconoscersi almeno in parte, regole universali tali che autorizzino a sperare e a progettare una buona vita.
Si obliterano i diritti sociali che costituiscono il perno e la condizione indispensabile per il godimento dei diritti civili e politici, poiché, a pancia vuota, la libertà individuale e collettiva sfuma nell’inesistenza e viene fiaccata ogni volontà critica/partecipativa, si soggiace alle prepotenze dei potenti.
Non a caso il quadro tratteggiato dalla Costituzione repubblicana del 1948 riconosce nel lavoro l’agente principale di effettività dei diritti sociali, un fondamento della Repubblica (art. 1).
Nell’attualità, anche per contrastare un sistema che nega i diritti acquisiti, il concetto è stato così tradotto: “Il lavoro è un bene comune”, nel senso che esso va tutelato “come bene comune di una collettività”. “Non è un oggetto (merce)...non è fine a se stesso, ma entità necessariamente funzionale alla qualità dell’esistere in un determinato contesto...da tutelarsi nei confronti sia del capitale privato (proprietà)...sia del sistema politico (governo) che del capitale privato sempre più frequentemente è succube” (U. Mattei “Beni comuni. Un manifesto. Laterza 2011).
La pratica politica dominante nell’ultimo ventennio ha rovesciato questa impostazione dando priorità esclusiva alle pretese imprenditoriali, spacciate come foriere di benefici produttivi e occupazionali per tutti, aziende e lavoratori subordinati.
In particolare, la necessità del ricorso alla flessibilità contro le “rigidità” imposte dal sistema dei diritti del lavoro, conquistati con le lotte degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, è la favola narrata a sostegno delle prime importanti manomissioni operate, a partire dagli anni Ottanta, con la legge n. 863/84 che prevede il contratto d’inserimento formativo per i giovani, il contratto a tempo parziale, i contratti di solidarietà finalizzati alla diminuzione dell’orario e del salario in casi di crisi aziendale.
Seconda tappa la L. 223/91 che ha ridotto le restrizioni ai licenziamenti collettivi dovuti a crisi e ristrutturazioni industriali.
Terza e più importante tappa negli anni Novanta: il cosiddetto “pacchetto Treu” (L.196/97) che introduce il lavoro interinale allargando le possibilità di impiego a termine e viene implementato nel 2003 dalla “legge Biagi” (L.30/03), il cui esito durevole è stato precarietà e condizioni di vita incivile per giovani e meno giovani.  Prevede, infatti, per esemplificare, il lavoro ripartito,  a chiamata, intermittente, a termine, la somministrazione a tempo determinato, a progetto, occasionale, accessorio e così via. Mentre il sistema di welfare non viene modificato e resta sostanzialmente agganciato al lavoro dipendente con contratto a tempo indeterminato.
Un disastro sociale in progressivo aumento che si accompagna a un evidente regresso della concorrenzialità delle imprese italiane sul mercato globale. Un apparato normativo attuativo di una costituzione materiale che ha scosso i pilastri della nostra civiltà giuridica e civile senza dare alcuno dei frutti promessi.
Perseverando nel misfatto, la classe al potere ci ha regalato nel 2011 l’art. 8 del DL n. 138/2011 (ora L. 148/2011), cioè la norma per cui la materia relativa all’organizzazione del lavoro e alla produzione viene regolata da accordi di livello aziendale o territoriale, capaci di derogare sia ai contratti nazionali sia alle leggi dello Stato. Per di più, tali accordi sono destinati ad avere valore vincolante per tutti i lavoratori interessati, anche se non aderenti alle organizzazioni stipulanti. Le materie che possono essere regolate coprono tutta l’area del rapporto di lavoro, dalle modalità di assunzione alle tipologie contrattuali, alla trasformazione del contratto e alla sua estinzione, anche in deroga alle disposizioni dell’art. 18 Statuto dei Lavoratori (segno premonitore di future manomissioni).
Questa legge opera il sovvertimento dell’ordine gerarchico delle fonti del diritto secondo cui la legge dello Stato prevale rispetto a qualsiasi accordo fra parti privati (tali sono le organizzazioni dei lavoratori e dei datori). Un sovvertimento che vale quale abdicazione a una parte importante della potestà legislativa su materie cui spesso ineriscono valori costituzionali. Aleggia sulla previsione un forte sospetto d’incostituzionalità non solo perché l’art. 39 della Costituzione prevede la possibilità di produrre effetti giuridici vincolanti erga omnes solo per i contratti stipulati da sindacati registrati, previa verifica di democraticità del loro ordinamento interno, requisito (la registrazione) ad oggi incompiuto, ma anche perché l’impianto della norma contraddice, trattando la materia come puro scambio fra oggetti (forza lavoro/denaro), la nozione che innerva la Costituzione repubblicana. Infatti, la dignità del lavoro implica in quel rapporto l’esistenza di valori extra patrimoniali, beni della persona che vanno tutelati, pena il deterioramento dello status di cittadino per chi è nelle condizioni di vendere la propria forza lavoro.
Anche l’accordo interconfederale del 28 giugno, sottoscritto definitivamente il 21 settembre 2011, si propone di estendere a tutti, iscritti e non, l’efficacia della contrattazione aziendale, noncurante del fatto che la contrattazione nazionale sia sprovvista di tale efficacia a causa della inattuazione dell’art. 39 Cost. Una previsione che rende il contratto nazionale flessibile in favore di esigenze aziendali ispiratrici della contrattazione di secondo livello, ove massimo è lo squilibrio nei rapporti di forza fra le parti contrapposte.
Sulla stessa linea di svalorizzazione del bene costituzionale lavoro si è posto il “governo dei tecnici” d’ispirazione europeista che ha messo mano a una riforma complessiva del diritto del lavoro, sempre nel dichiarato intento di promuovere la competitività imprenditoriale, l’occupazione, quindi il bene di tutti.
Si nota la perseveranza nella rappresentazione menzognera della realtà, che porta ad ulteriore effetto  la distruzione di quanto sopravissuto dell’apparato normativo garantista. Siamo di fronte, come è stato detto, a interventi caratterizzati da una forte asimmetria sociale che fanno crescere ancora di più la diseguaglianza. Il riferimento obbligato è alla manomissione dell’art. 18 della L. 300/1970 (Statuto dei Lavoratori) e ai primi articoli della L. n. 604/1966, leggi sottoposte a radicale revisione proprio perché pongono limiti alla libertà padronale di recedere dal contratto di lavoro ricorrendo a licenziamenti individuali ingiusti e/o ingiustificati.
I licenziamenti collettivi, come è reso chiarissimo da una molteplicità di casi recenti, vengono inflitti liberamente, essendo sottoposti solo all’osservanza di regole formali quanto a comunicazioni e procedure, poiché è impedita al giudice qualsiasi valutazione di merito sulle scelte imprenditoriali.
Ora il ripristino del rapporto di lavoro risulta ammesso solo nei casi di licenziamento nullo perché discriminatorio o dettato da motivo illecito, ovvero nei casi di sanzione disciplinare espulsiva inflitta ingiustamente perché l’addebito non corrisponde al reale comportamento tenuto dal lavoratore, o perché per tale comportamento è prevista dal codice disciplinare una sanzione conservativa e non estintiva del rapporto. Sono esclusi dalla reintegrazione i lavoratori estromessi per motivi economici, salvo che di questi ultimi non risulti la “manifesta insussistenza” (ipotesi dell’irrealtà).
Rimosso l’architrave della stabilità reale nel posto di lavoro, ogni altro diritto nel rapporto verrà meno perché per timore non sarà rivendicato. E’ passato, quindi, il concetto che per dare diritti ai giovani in cerca di lavoro bisogna toglierli a chi già lavora. Quando otterranno un lavoro, i nuovi assunti ne saranno a loro volta privi.  Peraltro anche questa è ipotesi poco realistica perché restano fermi gli oltre quaranta tipi di contratti di lavoro resi disponibili dalla legge Biagi.
Per le donne, presenza maggioritaria nella schiera dei disoccupati/inoccupati, la progettata controriforma non offre motivi di apprezzamento.
Questa, a grandi linee, la fotografia della situazione normativa sulla quale dovrebbe incidere il Piano del Lavoro 2013 del sindacato CGIL. 
La situazione materiale è illustrata dai dati preoccupanti delle rilevazioni ISTAT che evidenziano una nazione impoverita nella quale il 51% degli occupati riceve una retribuzione insufficiente a consentire una vita dignitosa. Infatti, la retribuzione media del lavoratore italiano si colloca al dodicesimo posto nella graduatoria dell’Unione europea essendo inferiore del 14% rispetto a quella dei lavoratori tedeschi, del 13% rispetto a quella del Regno Unito, del 11% rispetto a quella dei francesi. Contemporaneamente si registrano forti disparità generazionali: i lavoratori con almeno 15 anni di anzianità percepiscono una retribuzione annua superiore del 61% rispetto ai loro colleghi assunti da meno di 5 anni.
Il nostro paese ha anche un primato negativo nel gender gap: la retribuzione oraria delle donne era inferiore a quella maschile del 4,4% nel 2006 e nel 2010 si è divaricata a meno 5,3%. Eppure le donne presenti sul mercato del lavoro sono più qualificate degli uomini: il 51% ha un diploma di scuola secondaria superiore contro il 43% degli uomini e il 18% ha una laurea contro il 10% degli uomini, tuttavia, ad esempio, le donne dirigenti (poche) guadagnano in media circa €.61.000 annui contro €.89.000 degli uomini.
Secondo dati Eurispes l’occupazione femminile in Italia è del 46% contro la media europea del 58,5% e nei ruoli apicali gli uomini occupano l’80% dei posti.
Cosa ci si poteva aspettare dal Piano del lavoro della CGIL nella presente situazione di gravissimo disagio sociale, prevalentemente dovuto a cattiva e insufficiente occupazione?
Personalmente, avrei apprezzato una serie di proposte tali da suggerire una “normativa dissonante rispetto alle fallimentari politiche incentrate sulla compressione o arretramento dei diritti dei lavoratori” (P. Alleva il Manifesto 9.2.2013). In altre parole, la precisa enunciazione di proposte d’intervento legislativo di correzione rispetto alla deriva neoliberista in materia di diritti individuali e collettivi relativi ai rapporti di lavoro.
In primo luogo, un articolato di legge sulla rappresentanza capace di eliminare le storture dell’art. 8 L. 48/2011 sopra ricordato, ma anche in grado di garantire la rappresentanza di sesso, quindi di porre riparo alla situazione di perdurante grave discriminazione che colpisce maggiormente le donne, nell’infuriare della crisi.
L’enunciazione di regole dirette a contenere il ricorso a contratti instabili e temporanei -che riguardano ormai il 93% delle nuove assunzioni di giovani e meno giovani- costretti a svolgere in regime di precariato il medesimo lavoro già oggetto di contratto di lavoro a tempo indeterminato. Inoltre, regole per la trasparenza del mercato del lavoro attraverso la pretesa di generale conoscibilità della composizione della forza lavoro in ogni impresa, anche di piccole dimensioni, per evitare l’abuso di contratti precari e di discriminazioni nei confronti delle donne. Ancora, la revisione e precisazione del concetto di lavoro subordinato (rispetto al codice civile del 1942) per eliminare la simulazione di lavori autonomi, resi, in realtà, in regime di subordinazione verso la struttura d’impresa. Il ripristino della legge 188/2007 che conteneva più precise prescrizioni per arginare l’abuso delle dimissioni in bianco, utilizzate contro le donne in maternità. Il ripristino della previsione sanzionatoria dell’art. 18 S.L., quale garanzia di (relativa) libertà nell’ambito del rapporto di lavoro rispetto a soprusi quali declassamenti, riduzioni di orario, trasferimenti, licenziamenti illegittimi.
Previsioni di tutela economica per lavoratrici (specialmente) e lavoratori rispetto alla notevole caduta dei livelli salariali e del potere di acquisto.
In particolare, mi pareva logica l’aspettativa di un impegno preciso per l’incremento e la valorizzazione del lavoro femminile, in un periodo in cui risulta fortemente penalizzato dalle scarse opportunità, oltre che dall’incremento del lavoro di cura intrafamigliare, in ragione della potente erosione del welfare. Quindi, proposte di misure realmente formative, specialmente al Sud, dove si concentra inoccupazione e disoccupazione femminile.
La elaborazione di precise misure destinate a favorire l’occupazione femminile anche in presenza di carichi famigliari che sono il motivo principe di abbandono del lavoro da parte delle occupate. Per esemplificare: la ristrutturazione e la flessibilità amica degli orari di lavoro, la riorganizzazione degli orari scolastici, l’incremento dei servizi per l’infanzia e la vecchiaia non autosufficiente. Inoltre l’obbligo di ripartizione dei congedi parentali fra madri e padri, anche mediante la previsione di retribuzioni adeguate.
Nulla di ciò ho letto nel Piano del lavoro che menziona le donne solo in relazione alla indennità di maternità e non sfiora neppure la scena reale del lavoro che, ormai da tempo, rende palese e illumina tutto il lavoro necessario per vivere, non solamente quella frazione tradizionalmente messa a punto dall’ordine patriarcale del discorso, dell’economia, della politica.
Addirittura, nel dettare l’agenda per il governo che verrà (il Manifesto 23.2.2013) la segretaria generale della CGIL Camusso chiarisce un concetto che già traspariva dal Piano: la sua contrarietà ad un reddito di base a carattere universale e incondizionato.
Tutto al contrario, come è stato bene illustrato (C. Guglielmi, S. Rodotà), il diritto del lavoro del XXI secolo dovrebbe consentire l’affermazione del libero progetto esistenziale di ognuna/o attraverso una previsione forte e generalizzata di diritti giustiziabili, un livello minimo di retribuzione per tutti i lavoratori subordinati e autonomi in situazione di dipendenza socio economica e, principalmente, anche qual mezzo al fine, un forte e generalizzato basic income.
Trattasi di provvidenza che trova aggancio normativo nell’art. 38 della nostra Costituzione e nell’art. 34 della Carta dei Diritti dell’Unione europea.
 Alcuni aspetti dell’istituto lo rendono favorevole alle donne.
Esso è garantito ai singoli e non alle famiglie, riguarda gli esseri umani comunque sessuati e non i nuclei di convivenza tuttora a stretta egemonia maschile, ove il marito dispone normalmente di tutti i beni in virtù del suo sesso. Suppone che ognuna/o sia titolare di un pari diritto esistenziale, indipendentemente dalla collocazione famigliare e sociale (C: Pateman “Democrazia, diritti umani e basic income nell’era globale”).
Al ristabilimento di un equilibrio sociale penserà la tassazione fortemente progressiva sui cespiti comunque acquisiti, già prevista dal disapplicato ma vigente (quindi sempre attuabile) art. 53 della Costituzione repubblicana.
E’ favorevole alle donne perché esse sono maggiormente disoccupate, inoccupate, sotto qualificate e sottopagate anche se dotate di laurea e master, quando presenti nel mercato del lavoro.
E’ favorevole alla acquisizione di un autentico diritto di cittadinanza che non esiste per chi non abbia assicurata l’indipendenza economica, indipendenza per le donne assai problematica, allo stato. Alla obiezione che il basic income rafforzi la tendenza femminile a lavorare per la famiglia, molte femministe rispondono che può essere così nel breve periodo finchè prevalgono stereotipi culturali tradizionali, perché i cambiamenti destano timore. Ma nel medio o lungo termine una modesta indipendenza economica rende il lavoro per il mercato una scelta autentica e determina un cambiamento di cultura. Con il basic income, le donne possono considerarsi cittadine a pieno titolo anche perché viene detronizzato il lavoro per il mercato che cessa di essere l’unica cosa che conta ai fini della piena cittadinanza. (C.Pateman “Freedom and democracy”)
Questo concetto risuona anche alle nostre orecchie, basta considerare gli art. 1 e 37 della Costituzione repubblicana: un trono al lavoro maschile, uno sgabello a quello femminile.
In altre parole, il basic income costituisce una garanzia sociale capace di districare il legame fra lavoro e guadagno, contribuendo alla modifica di una società imperniata su un bene fortemente sbilanciato e attualmente ridotto al lumicino, il lavoro. Invece che confinare le donne nella sfera privata, potrebbe avere un effetto di trasformazione, relativizzando la divisione sessuale del lavoro e, attraverso la desacralizzazione del lavoro per il mercato, costituire un incentivo per gli uomini a condividere più equamente il lavoro in famiglia prendendosi cura di se medesimi e degli altri.

 

10- 03- 2013